Space Shuttle Discovery
01.04.800 confezione di carta igienica (non aperta), conservata nel "dispenser" originale in plastica trasparente. Questa carta igienica è stata trasportata sullo Space Shuttle Discovery, nella missione "Return to Flight " STS 114 del Luglio 2005
La confezione (insieme ad altri oggetti) è stata scaricata dallo Shuttle Discovery per essere esaminata. Tutti gli oggetti sono poi stati conservati come reperti e venduti: questa confezione è stata acquistata dalla NASA, JSC (Johnson Space Center) a Houston, Texas. (Foto sotto: certificati di autenticità)
STS-114
La STS-114 è stata la prima missione "Return to Flight" dello Space Shuttle dopo il disastro dello Space Shuttle Columbia (907 giorni dopo la perdita del Columbia). Il Discovery è stato lanciato il 26 luglio 2005.
STS-114 fu il secondo volo dello Shuttle con una comandante donna (Eileen Collins, che comandò anche la missione STS-93). La missione STS-114 doveva inizialmente essere effettuata a bordo dell'orbiter Atlantis ma la NASA lo sostituì con il Discovery dopo che fu trovato un ingranaggio installato in modo improprio nel sistema di freno di velocità del timone dell'Atlantis
La missione terminò il 9 agosto 2005, quando il Discovery atterrò alla base aerea di Edwards in California. Le cattive condizioni meteorologiche sopra il Kennedy Space Center in Florida impedirono allo shuttle di utilizzare il suo sito di atterraggio principale.
Questa missione aveva lo scopo di trasportare l'equipaggio della Spedizione 7 sulla ISS e riportare a casa l'equipaggio della Spedizione 6, consegnare rifornimenti alla Stazione Spaziale Internazionale, testare e valutare le nuove tecniche di sicurezza del volo dello Space Shuttle, che includevano nuove tecniche di ispezione e riparazione. Durante la missione, l'equipaggio ha effettuato tre passeggiate spaziali.
Equipaggio: comandante Eileen Collins (USA) – pilota James M. Kelly USA) - ingegnere di volo Stephen K. Robinson (USA) - specialisti di missione Soichi Noguchi (Giappone), Andrew SW Thomas (Australia), Wendy B. Lawrence (USA), Charles J. Camarda (USA)
Come si va in bagno nello spazio? Storia di una sfida tecnica
La gestione sicura dei rifiuti solidi e liquidi del corpo umano è una questione tecnica essenziale per qualunque missione spaziale, ma raramente discussa in pubblico. Se chiedete a un astronauta come si va al gabinetto nello spazio, spesso risponderà usando le parole rese famose dall’astronauta lunare Charlie Duke: “very carefully”, ossia “con molta attenzione”. L’attenzione è meritatissima perché, in microgravità, ciò che si vorrebbe allontanare il più rapidamente possibile dal proprio corpo tende a non farlo: per esempio, la tensione superficiale fa aderire i liquidi al corpo come una pellicola, mentre nel caso dei rifiuti solidi si verifica un particolare effetto di estrusione non lineare che i tecnici chiamano “the curl” (il ricciolo). Se avete presente come si comporta la pasta d’acciughe quando la spremete dal tubetto, non vi serve sapere altro.
Come se non bastasse, se l’astronauta o cosmonauta riesce ad allontanare correttamente da sé questi materiali indesiderati rischia di trovarsi circondato da una galassia di maleodoranti particelle liquide o solide fluttuanti, che sarebbe ovviamente pericoloso trovarsi addosso, inalare o ingerire e sarebbe poco salutare dover maneggiare o rimuovere dagli apparati tecnici di bordo, dove potrebbero creare intasamenti, contaminazioni e corti circuiti.
Sulla Terra, o su un altro corpo celeste come la Luna o Marte, la gravità fa andare tutto verso il basso nei recipienti appositi, ma in assenza di peso occorre trovare un altro modo di raccogliere e contenere le sostanze indesiderate. In altre parole, creare un gabinetto spaziale che funzioni a dovere è una sfida tecnica impegnativa ma assolutamente vitale per qualunque viaggio nel cosmo.
primi esperimenti
I primi voli spaziali russi e americani con equipaggio furono talmente brevi che il problema della toilette non si pose, con una eccezione notevole: quella di Alan Shepard, che il 5 maggio 1961 divenne il primo americano a compiere un volo nello spazio nel quale ci si dovette confrontare con i limiti fisiologici del corpo umano in questo campo delicato. Il volo di Shepard (suborbitale, mentre i russi avevano già raggiunto l’orbita) aveva una durata prevista di quindici minuti, per cui non era stato previsto alcun sistema di gestione di urina e feci. Ma, il maltempo e alcuni problemi tecnici, rinviarono il decollo per quattro ore, e alla fine l’astronauta si trovò costretto ad annunciare ai controllori della missione che aveva bisogno di orinare. Estrarlo dalla capsula sarebbe stato molto complicato e avrebbe richiesto il rinvio del lancio, per cui i tecnici si consultarono e diedero a Shepard il permesso di orinarsi addosso, dentro la tuta spaziale. Il liquido mandò in corto i sensori dei parametri fisiologici sul corpo dell’astronauta, che era coricato sulla schiena per il decollo, ma tutto andò bene e Alan Shepard completò il proprio volo con successo.
Fu avviato un programma di ricerca dettagliato per risolvere la questione, ma i risultati non furono molto positivi, anche perché l’unico modo per simulare l’assenza di peso senza andare nello spazio era (ed è tuttora) effettuare voli parabolici con aerei di linea appositamente modificati, che offrivano soltanto una ventina di secondi di caduta libera, durante i quali intrepidi volontari e volontarie, dovevano espletare i propri bisogni a comando in quei 20 secondi e sotto i riflettori delle cineprese che riprendevano da vicino l’intera procedura.
Queste limitazioni, insieme a quelle imposte dalla capacità di carico dei vettori spaziali che rendevano impraticabile avere a bordo l’ingombro e il peso di un bagno vero e proprio, portarono, per molti anni, a un rimedio molto primitivo: nelle missioni statunitensi Gemini e Apollo, l’urina veniva raccolta in un sacchetto che si raccordava ai genitali maschili tramite una sorta di preservativo modificato e le feci venivano raccolte in un altro sacchetto, dotato di imboccatura adesiva da applicare alla parte interessata, agevolando il distacco delle feci tramite un dito inserito in un’apposita rientranza del sacchetto: a cose fatte, era necessario introdurre nel sacchetto un liquido germicida e impastare il tutto per evitare fermentazioni, perché i rifiuti solidi venivano tenuti a bordo per le analisi post-volo. Quelli liquidi venivano scaricati nello spazio, sublimandosi di colpo e creando una nube scintillante di particelle che l’astronauta Wally Schirra chiamò la Constellation Urion, ossia la “costellazione di Orinone”.
L’urina scaricata nello spazio crea la “costellazione di Orinone” (da National Geographic, aprile 1966).
Una fecal bag dell’epoca delle missioni Apollo
Apollo 10
L’operazione poco gradevole, da effettuare naturalmente in assenza di peso e senza privacy, era complicata, richiedeva molti minuti e spesso non era coronata da pieno successo: vi sono registrazioni memorabili di astronauti (per esempio quelli di Apollo 10, nel 1969) che discutono di chi sia un frammento fecale fluttuante nella stretta cabina.
Nella foto la trascrizione delle conversazioni in cabina di Apollo 10.
Soyuz
Ai cosmonauti russi delle Soyuz andava un po’ meglio, dato che il veicolo aveva due spazi abitativi separabili che consentivano un minimo di intimità e c’era una rudimentale toilette costituita da un imbuto e da un vasino collegati a un tubo aspirante.
Nella foto: addestratore russo per la “toilette” di bordo del veicolo Soyuz.
Per le fasi di volo durante le quali astronauti e cosmonauti dovevano restare sigillati nella propria tuta pressurizzata e per le “passeggiate spaziali” si adottò (e si adotta tuttora) una sorta di pannolone, oggi chiamato elegantemente Maximum Absorbency Garment. L’introduzione di una dieta a basso residuo solido e di un clistere pre-volo consentì a russi e americani di contenere il problema ma non di risolverlo del tutto.
Con l’avvento delle prime stazioni spaziali (le Salyut sovietiche e lo Skylab statunitense negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso) e dello Shuttle americano fu possibile adibire una parte della cubatura del veicolo a latrina, come avviene anche oggi a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (ma non, a quanto risulta, sulla stazione cinese Tiangong, che per queste funzioni usa gli apparati semplificati del veicolo Shenzhou).
Inoltre, dopo tutte le riluttanze degli ingegneri degli anni Sessanta e Settanta, ci si rese conto che l’anatomia femminile era in realtà perfettamente gestibile usando semplicemente un po’ di destrezza e un imbuto appositamente conformato (aderente al corpo e dotato di un’apertura per l’ingresso dell’aria, diversamente dall’imbuto maschile, per il quale l’aderenza ai genitali non è richiesta ed è anzi sconsigliata).
Lo Shuttle, per esempio, aveva un gabinetto vero e proprio: una piccolissima cabina nella quale l’astronauta si poteva fissare inserendo i piedi nelle apposite staffe per poi orinare dentro un imbuto dotato di impianto aspirante oppure “sedersi” su un sedile dotato di una piccola apertura di dieci centimetri di diametro, anch’essa collegata a un aspiratore.
L’uso di questo gabinetto spaziale richiedeva un apposito addestramento sulla Terra, con tanto di positional trainer: un simulatore fisico nel quale l’astronauta imparava a sedersi correttamente e ad allineare con precisione il proprio sfintere rispetto all’orifizio del gabinetto, con l’ausilio di una telecamera che inquadrava dall’interno della toilette l’intera manovra. Una volta padroneggiato il positional trainer, si passava al functional trainer, nel quale bisognava procedere concretamente alle evacuazioni, eseguendo inoltre la complessa procedura di attivazione e gestione del sistema aspirante. Non era certo una soluzione agevole, ma era già un passo avanti rispetto al sacchetto o al vasino del passato. L’unico inconveniente era che i rifiuti liquidi spesso si ghiacciavano all’esterno dello Shuttle, causando frequenti intasamenti che rendevano inservibile questa toilette e obbligando gli astronauti a tornare ai sistemi tradizionali.
Questo nuovo sistema ebbe un rodaggio particolarmente sofferto. Durante il primo volo dello Shuttle (STS-1) il sistema di raccolta delle urine funzionò correttamente, ma quello fecale si intasò. Per fortuna c’erano a bordo, come riserva, i vecchi sistemi Apollo.
Durante questa missione di debutto si scoprì anche un altro problema: disseccare le feci usando il vuoto tendeva a generare polveri fecali che, se il sistema non funzionava alla perfezione, si potevano diffondere nell’atmosfera della cabina, cosa che accadde puntualmente durante il rientro di STS-1. Il rischio era che questa polvere entrasse in contatto con gli occhi, il naso o la gola degli astronauti e che l’umidità naturale di queste zone ricostituisse la materia fecale. Una situazione particolarmente indesiderabile. Il gabinetto spaziale fu drasticamente riveduto e semplificato per le missioni successive.
Sulla Stazione Spaziale Internazionale ci sono attualmente due gabinetti, uno nella sezione russa e uno nella sezione statunitense. Entrambi usano gli stessi principi meccanici già collaudati e richiedono lo stesso genere di addestramento all’uso: la gravità viene sostituita dall’aspirazione, un imbuto collegato a un tubo aspirante raccoglie i liquidi e un recipiente metallico in depressione raccoglie i solidi.
La miglioria importante rispetto al passato è che sull’imbocco del recipiente viene fissato ogni volta un sacchetto perforato che raccoglie le feci, riducendo il rischio di dover procedere a catture manuali di particelle fluttuanti. Il recipiente viene periodicamente sostituito ed eliminato mettendolo a bordo dei veicoli cargo destinati a disintegrarsi durante il rientro in atmosfera.
Anche qui non mancano i problemi: l’accumulo di materiale fecale crea odori che si cerca di trattenere filtrando l’aria, lasciando che il freddo dello spazio congeli man mano il materiale e sigillando il contenitore dopo ogni uso, ma queste soluzioni hanno introdotto a loro volta le sfide tecniche denominate coloritamente fecal popcorning (le feci appena espulse tendono a rimbalzare per inerzia sulle pareti e smuovono quelle già congelate, creando un effetto simile al popcorn durante la cottura) e fecal decapitation (il materiale tende a riemergere inaspettatamente durante la richiusura del sigillo e viene tranciato, con effetti comprensibilmente poco entusiasmanti).
La tecnologia della toilette spaziale è ormai matura, ma per effettuare missioni nello spazio profondo occorre ridurre i consumi e quindi riciclare tutto il riciclabile: per questo a bordo della Stazione Spaziale Internazionale è stato introdotto dal 2008 un sistema che recupera, distilla e rende potabile l’umidità dell’aria di bordo generata dalla respirazione degli astronauti e gran parte dell’urina del gabinetto della sezione statunitense.
Questo complesso e delicato sistema riduce drasticamente la quantità d’acqua che è necessario portare nello spazio, contenendo i costi e consentendo missioni più lunghe, anche se ha qualche effetto psicologico da prendere in considerazione. Come dice l’astronauta Paolo Nespoli, infatti, il problema non è tanto l’idea che in un certo senso devi bere la tua stessa pipì: è che ti rendi conto che devi berti anche quella degli altri.
Una volta arrivati sulla Luna o su Marte sarà di nuovo possibile sfruttare la gravità per ottenere un gabinetto che funziona in modo normale in termini di raccolta dei rifiuti solidi e liquidi, ma resterà la necessità di riciclare, alla quale si aggiungerà quella di non contaminare l’ambiente circostante.
Il logo del bagno sull’ ISS
A spiegare il funzionamento dei wc, ci ha pensato anche Samantha Cristoforetti, l’orgoglio italiano che può vantare di essere la prima donna nell’equipe dell’Agenzia Spaziale Europea: si tratta di una piccola zona sulla Stazione Spaziale Internazionale, dove si trova un meccanismo per i “rifiuti liquidi e solidi”.
Il dispositivo per i rifiuti liquidi in sostanza è formato da un tubo, alla cui fine è presente un imbuto dotato di tappo. All’interno del tubo è presente un ventilatore che si può accendere tramite una manopola. Accendendo il ventilatore, si crea una aspirazione che permette di fare pipì senza che questa venga dispersa. Questa quindi finirà in un dispositivo di filtraggio di alto livello, presente sotto il pavimento della stazione. Questo complesso sistema di filtraggio, farà in modo di riciclare completamente la pipì che, dopo tutta la durata del processo, sarà trasformata in acqua potabile. Per i rifiuti solidi, invece, esiste un sistema a parte sempre situato in questa zona della stazione spaziale. Consiste in un contenitore metallico collegato ad uno sportellino quadrato che si apre, in modo da potersi sedere sopra. Una volta aperto questo sportellino, si troverà un foro che collega la superficie ad un contenitore, dove andranno a finire i rifiuti solidi. Per una questione di igiene, i rifiuti non finiscono tutti insieme indistintamente nel contenitore. Alla base del foro, infatti, chi deve utilizzare il “bagno”, dovrà inserire una apposita bustina nel quale finiranno i propri bisogni. Una volta terminato, il sacchetto dovrò essere richiuso per poi essere buttato nel contenitore. Sulla stazione spaziale internazionale, si usa la comune carta igienica.